stampa critica
G I O R N A L I S M O I N D I P E n D E N T E
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G I O R N A L I S M O I N D I P E n D E N T E
Numero 04/2016
Mario Guido Faloci
Cinquantaquattro anni fa, l’assassinio del sindacalista d’Alcamo
Il 18 febbraio del 1962, come altre volte, dopo una giornata di lavoro e prima di dedicarsi alla sua attività sindacale, Giovanni si era recato al panificio di famiglia della moglie. Un po’ per dare una mano e un po’ per impratichirsi di quel tipo di lavoro, quando poteva vi si recava, poiché sapeva che nella sua attività sindacale, aveva “dato fastidio” e s’aspettava d’essere licenziato.
In quegli anni e in quelle zone, prima dello statuto dei lavoratori, non era insolito essere licenziati senza un chiaro motivo. Proprio per questo, Giovanni Marchese, temeva la stessa sorte di quei lavoratori che, da attivissimo sindacalista CGIL, cercava di tutelare.
Pensava che avrebbe perso il suo lavoro di bigliettaio, presso la compagnia di trasporti Segesta, non immaginava che avrebbe perso la vita.
Le indagini, come accadeva spesso allora, non portarono a nulla, poiché furono condotte in modo approssimativo, quasi rinunciatario, perché proprio l’onestà della persona e la sua normalità, nonché la diffusa omertà dei suoi concittadini, non davano molti indizi, da cui iniziarle. L’unica traccia, era la modalità efferata di quell’omicidio, tipica dell’esecuzione mafiosa; ma forse, proprio per questo, l’inchiesta non giunse a nessuna conclusione.
Di lui dicevano che era una persona onesta e limpida, un gran lavoratore ed un sindacalista appassionato, di quel sindacalismo puro che nasce dal porre prima il proprio lavoro, senza sottrarsi alla fatica. Però era “un uomo dalla schiena dritta” e, seppure materialmente non poteva arrecare un gran danno, il suo esempio era rischioso, per coloro che fanno del sopruso e dell’ignoranza, le leve del proprio potere: non era un giudice che indagasse sulle cupole mafiose, non era un politico che potesse decidere di appalti, non era un imprenditore che muovesse grossi capitali, ma era una persona semplice che col suo operato, poteva smuovere le coscienze.
Negli anni ’60, in Italia ed in Sicilia, si viveva in un crescente clima di prosperità economica e la guerra era sempre più un ricordo. Le prime leggi a tutela dei deboli, stavano iniziando anche a logorare il potere delle mafie, soprattutto se c’erano uomini che s’impegnavano personalmente, affinché venissero applicate. Anche uomini comuni, persone pulite, cittadini liberi, esempi di ribellione al sopruso, come fu Giovanni Marchese, un siciliano come tanti, onesto e non colluso con la malavita. E, come tanti suoi conterranei, vittima di un potere atavico, quello del sopruso sull’onestà.
Non è vero che al mondo si nasca tutti uguali, se il semplice fatto di nascere a certe latitudini, “sotto un accento sbagliato”, poi ti segni tutta la vita: se impegnarsi nel sindacato, in quegli anni era rischioso, in certi posti lo era di più e, la lotta per i diritti dei lavoratori, poteva significare anche la morte.
Se un’arma da fuoco uccide un uomo, l’indifferenza e l’irriconoscenza, ne uccide la memoria e questo, la mafia, col suo omicidio, voleva ottenere.
Se Giovanni Marchese fosse stato ucciso oggi, forse ci sarebbero persone con la scritta “Je suis…” dedicata a lui, sui social. Ma, poiché fu ucciso in un’epoca in cui internet praticamente non esisteva, a lungo di lui si perse la memoria. Per questo, è giusto scrivere ancora e sempre, di questi eroici siciliani, persone comuni lontane dagli stereotipi di mafiosi e nullafacenti, per preservarne il ricordo, per perpetuarne l’esempio.
Giovanni Marchese, ucciso per il rispetto dei diritti dei lavoratori
lunedì 29 febbraio 2016