stampa critica
G I O R N A L I S M O I N D I P E n D E N T E
stampa critica
G I O R N A L I S M O I N D I P E n D E N T E
Numero 04/2016
Riccardo Tavani
La scena finale del film lo confessa: si è trattato solo di un trucco. Quella fasulla lettera del Presidente Lincoln al Maggiore Marquis Warren racchiude in sé tutto il senso del film: da appallottolare e gettare via.
Tarantino serra claustrofobicamente la grande epopea western dentro un unico ambiente chiuso, trasformandola in un dramma teatrale per interni, nel quale le armi da fuoco hanno diritto di parola più delle bocche vomitanti insulti degli odiosi otto protagonisti. Poi srotola il prodotto nel super formato cinematografico Ultra Panavision da 70 mm, contro di quello normale da 35 mm, ma non funziona. Vorrebbe restituire i grandi spazi esterni negati in questa vicenda alla sua macchina da presa, però, anche se lo guardassimo su uno schermo esteso come uno stadio di calcio non sarebbe certo questo aspetto geometrico-spaziale a far funzionare il film. Neanche lo spazio musicale intessuto da Ennio Moricone riesce a farlo decollare verso i grandi orizzonti drammatici della storia umana che la colonna sonora vuole evocare.
Eppure l’inizio, con quella diligenza inseguita dalla tempesta nelle vallate innevate del Wyoming, e quel crocefisso di legno esposto al vento gelido della crudeltà, non è male. Neanche lo stacco mitologico dei personaggi è male: il delinearli nel vestiario, nel parlare, atteggiarsi, grugnire, minacciare. Un mix di leggendari stereotipi sedimentati in tutta la storia dei cinema western, sapientemente distribuiti e cuciti addosso alle maschere, alle cartucciere, alle Colt, ai cappelli dei suoi eroi. Appena però realizzi che tutta quella overture per esterni serve solo a giustificare meglio la messa a serraglio della carovana dentro l’emporio di Minnie sperduto tra le montagne, cominci ad avere tu la sensazione di esserti cacciato in una trappola. E così è. Da quella pièce teatrale con la porta inchiodata a martellate, non uscirai più fino alla fine. Anche se il film lo vedi su un super schermo nel mitico studio 5 di Fellini a Cinecittà, sempre nello spazio angusto, chiuso tra le assi di legno, infisse al soffitto, alle pareti, al pavimento di quel piccolo emporio resti.
Spazio angusto anche dal punto di vista drammatico. Per tutti i sensi, i significati, i riferimenti alla storia e alla contemporaneità americana; per tutti gli stilemi scenici e iconografici della storia e della contemporaneità cinematografica mondiale, americana e tarantiniana, tu voglia sviscerare, il tessuto drammatico della vicenda è quello che è. Già il cinema non dovrebbe essere mai teatro ripreso con una cinepresa e meramente riprodotto su uno schermo, se poi è anche scena che non aggiunge niente di nuovo, allora il discorso si impicca da solo su se stesso. Se, inoltre, al culmine del dramma in sedicesimo, si usano persino trucchi sotterranei, scorrette omissioni narrative e flashback di terz’ordine per giustificarle, allora ci arrendiamo senza neanche il bisogno ci venga puntato un fucile Winchester addosso. E degnamente, in tutta quella scena, potrebbe puntarcelo addosso solo Samuel L. Jackson
Naturalmente i tarantiniani di ferro resteranno fedeli alla linea del maestro, niente da dire, per carità, ma per quello che ci riguarda preferiamo restare fermi a Django, in attesa del passaggio della prossima tragica diligenza, che non vada, però, a inchiodarsi dentro un altro asfittico emporio tipo quello di Minnie.
The hateful eight: solo un fottuto trucco di Tarantino
lunedì 29 febbraio 2016